Domenica napoletana
L’aria del primo mattino si era rinfrescata, dopo la notte calda e azzeccosa.
Il quartiere Santa Teresa, un irrequieto incontro di salite, vicoli e discese, aveva trascorso la nottata con le finestre e i balconi aperti, si era presentata proprio na stagion afosa.
Il compare e la comare, tra uno sbadiglio e uno scricchiolio di ossa, sorseggiavano ‘a tazzulella e’cafe’ in pizzo al letto, guardando dal balcone Via Foria ancora addormentata.
Era domenica e la buona domenica napoletana, un tempo si passava in famiglia, a pranzo tutti insieme, tutti riuniti a casa dei genitori, figlia con marito, figli maschi con le rispettive mogli, unamorra ’e neput e per finire c’era pure Donna Giuseppina, consuocera matrona onnipresente e di buon appetito.
Ebbene, il compare e la comare si facevano coraggio e in cucina iniziavano smaniosamente a preparare.
Sui fornelli le pentole di alluminio pesante, in quella grande ‘o ragù pappuliava a fuoco lento,affiancato dalle patate pe ‘e panzarotti, che allegre saltavano nell’acqua bollente.
Nella padella cu’ ‘o cuperchie ‘ncopp’ scuppittiaven ‘e friariell e int’ ‘a chell’ ‘ata frijevano i peperoni con i capperi e le olive di Gaeta.
Int’ ‘o tianiell patane novelle e pullaste ’e campagna, cuonci cuonci s’arruscavano senza pressa e nel lavello galleggiavano finocchi e ravanelli da lavare.
Compito più gravoso, era tutto del compare che sul tavolo in cucina setacciava due, tre chili di farina, aggiungeva un pugno di sale fino, poi al centro fatto un incavo con la mano vi versava l’acqua tiepida e mescolava.
Energicamente impastava e il bianco composto pian piano diveniva morbido come le guance di un bambino.
Dopo aver ben lavorata la voluminosa massa, ne prendeva un po’ alla volta e sotto le sue mani infarinate iniziavano a rotolare lunghi cordoncini di pasta, che deferenti si lasciavano tagliare.
Continuavano così le sue abili dita con movimenti regolari incavavano velocemente, trasformando i piccoli pezzetti d’impasto in invitanti gnocchi.
La comare andava e veniva dalla cucina alla camera da letto e per non impicciare i tavoli poggiava gli gnocchi, proprio sul suo comodo letto, per farli giustamente riposare. Messe di lungo, da una parete all’altra sistemavano due tavoli e un tavolino, tante sedie intorno, forse una ventina, tovaglie di fantasie diverse, che si tenevano le une al lembo delle altre, posate, bicchieri e piatti, sembrava proprio un’osteria.
L’ora di pranzo era vicina, gli odori provenienti dalle cucine del quartiere, si alzavano festosi nell’aria e sopra i tetti delle case improvvisavano un girotondo di profumi.
Arrivavano gli ospiti, chi con un cartoccio di dolci tra le mani, chi con un retino di cozze per farne un’impepata a fine pranzo.
A capo tavola il compare e alla sua sinistra la comare,”buon appetito” echeggiava tra quelle mura.
Il pranzo certo non era mai fugace, si protraeva per ore e ore, tra i capricci dei bambini e il rumore delle sedie che si allontanavano e si riavvicinavano ripetutamente ai tavoli.
Non avevano fretta di finire, ne di andare altrove, così restavano tutti intorno ai tavoli fino a sera.
Su insistente richiesta dei commensali, la comare con timido piacere intonava “’O cunt ‘e Mariarosa,” c’era chi l’accompagnava battendo il ritmo sul tavolo con il palmo della mano e chi invece le si univa in coro,“ ‘O cunt ‘e Mariarosa è chistu ca’, chistu ca’, chistu ca’”.
La serata continuava tra una canzonetta antica e un bicchiere di vino amabile, fino a quando il pianto lagnoso dei bambini stanchi e assonnati, sottolineava ca‘a dommeneca era passata.
Un po’ per volta tutti andavano via, figli, genero, nuore, nipoti e nipotine e pure Donna Giuseppina.
“Bona nuttata” a dummenca ca ven.”
Domeniche napoletane di tanto tempo fa, domeniche semplici che sapevano d’amore e di ragù.
Angela Merolla
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